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Roberto Rossi (trombone), Alessandro Di Puccio (vibes),
Paolo Ghetti (double bass), Alessandro Fabbri (drums).
Guest : Marco Tamburini (trumpet) on n° 1/6.
1) Aspettando Anna; 2) Bluesette; 3) Desert’s dance; 4) Lalù;
5) Black coffee; 6) Profumo d’Africa; 7) Blues for…; 8) Bejaflor; 9) Cippa Lippa
Ci sono voluti vent’anni perché Paolo Ghetti, nato a Forlì nel 1966, fra i più
ricercati ed apprezzati contrabbassisti italiani, dopo almeno una quarantina
di dischi come sideman, si decidesse ad assumere il ruolo di leader, cosa
che fra l’altro gli è riuscita molto bene. Ma è in buona compagnia Ghetti,
poiché nel jazz non esistono solo Charles Mingus, Dave Holland o Charlie
Haden; analoga sorte è capitata a maestri come Ray Brown e Paul
Chambers, Jimmy Garrison e Scott LaFaro. Supera a pieni voti la prova il
contrabbassista romagnolo, assecondato da tre musicisti con cui s’intende
a meraviglia, personalità forti e diverse ma con evidenti affinità poetiche,
come Alessandro Di Puccio, vibrafono, Roberto Rossi, trombone,
Alessandro Fabbri, batteria. In due dei nove brani dell’album c’è in più la
complicità colloquiale dell’amico Marco Tamburini, che Ghetti ha giÃ
accompagnato in molti importanti progetti. «Profumo d’Africa» è un disco
che si beve tutto d’un fiato, la dimostrazione di come si possa esser freschi
e creativi senza tradire la tradizione jazzistica, fregandosene dell’influenza
delle mode. Sono molte e diverse le sue qualità . Saltano subito all’orecchio
una grande cura nella pianificazione degli arrangiamenti (non si assiste
mai, ad esempio, alla tradizionale parata di improvvisatori sulla medesima
griglia armonica), così come l’attitudine a organizzare forme inedite
(spesso piuttosto estese) e costruite sul contrasto tra le varie sezioni.
Dice bene, nelle articolate ed esaurienti note di copertina il critico e
musicologo Luca Bragalini: «…Senso del blues, amore per il jazz
mainstream e quello più avanguardistico, attrattiva per i ritmi afro, latin e
funk, dedizione alla scrittura e naturale vocazione all’improvvisazione;
qualcuno potrebbe obbiettare che queste non sono prerogative esclusive
di «Profumo d’Africa», perché molti dischi di jazz sono accomunati dalle
medesime caratteristiche. E noi non gli daremmo torto. Nondimeno lo
metteremmo in guardia ricordandogli le parole di quel tale che fu sempre
convinto che, in musica, il successo di una ricetta dipendesse non tanto
dagli ingredienti (egli cavò visionari capolavori spesso da semplici giri di
blues), ma da come questi fossero armonizzati; “the art is in the cookingâ€.
Così la pensava Duke Ellington…».