
Maurizio Brunod (electric, acoustic & classic guitars; live sampling).
1) Tango tangues; 2) Northern lights; 3) Ballad for Pat;
4) Snow in Langa; 5) Lara’s dance; 6) Allevi’s dream;
7) Waltz for Joe; 8) A song not to happy; 9) Blue in green; 10) Didime.
Conserva un’aria da ragazzo, Maurizio Brunod, ma il mero dato
cronologico ci racconta che sono passati oltre vent’anni dagli esordi
discografici, e qualcuno di più, naturalmente, da quando ha cominciato
ad imbracciare la sei corde. Il quartetto “Enter Eller” e la band di Claudio
Lodati “D’accorda”, sono i gruppi con cui ha messo in luce doti non
comuni: ad esempio ricercare una via che mettesse assieme la ricerca
del miglior art–rock (quello del tardo “progressive”, che lambiva le
inquietudini del “rock in opposition”, senza abdicare al vacuo gigantismo
spettacolare), con quella del jazz d’avanguardia. Adesso, mentre sono
appena usciti un disco in quartetto con Alexander Balanescu, Claudio
Cojaniz e Massimo Barbiero («Marmaduke») ed un altro in quintetto con
Bjorn Alterhaug, Ivar Antonsen, Paolo Vinaccia e John Surman
(«Svartisen»), entrambi per la Splasc(h), arriva una riposante pausa di
riflessione con un album (il quarto della carriera) per chitarra sola. Da
non prendersi alla lettera, naturalmente: perché Brunod ama giocare
con le sovraincisioni, e dove ritiene di “doppiare” il suo tocco limpido
sulle corde acustiche con gentili sferzate elettriche, una specie di ponte
tra il miglior Pat Metheny e ricordi ben assimilati di David Gilmour e
Steve Hackett, lo fa senza timori reverenziali che il tutto suoni come
“poco jazz” o che sia comunque difficilmente etichettabile. Ci sono
tango, valzer, ballad liriche e sognanti, riprese di celebri standard
jazzistici come Blue in green e A song not to happy: chitarra elettrica ed
acustica si alternano con piacevole fluidità e l’elettronica – quando
appare – è pertinente e misurata. Non c’è niente di cui rimproverarsi
insomma per questo disco in solitudine, che appare piuttosto solo una
tappa di un percorso musicale lungo e brillante, di cui poter andar
certamente fieri. Maurizio Brunod appartiene ad una generazione di
quarantenni che, pur con indiscutibile e solido retroterra jazzistico, si
diverte a giocare – e molto bene – con le tante musiche possibili. Una
nutrito gruppo di musicisti che merita tutta la nostra attenzione e da cui
stanno arrivando importanti indicazioni per il futuro del jazz. Riguardo al
disco in questione poi, il suo autore non sembra avere proprio dubbi,
poiché dichiara, perentoriamente, nelle note di copertina: “… «Northern
Lights» è senza dubbio il più raffinato e maturo disco di chirarra–solo
che abbia mai inciso…”.