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Luca Dal Sacco (acoustic guitar), Matteo Mosolo (double bass).
1) Englishman in New York; 2) King of pain; 3) Walking on the moon;
4) Synchronicity II; 5) Seven days; 6) Tea in the Sahara; 7) Synchronicity I;
8) Every little thing she does is magic; 9) Message in a bottle;
10) Fields of God / Shape of my heart; 11) Roxanne.
Sessant’anni in due, i friulani Luca Dal Sacco e Matteo Mosolo
hanno costituito l’Humpty Duo nel 2010 e la formula, oltre che
originale, s’è rivelata vincente se è vero che li ha condotti, dopo molti
concerti, sino al terzo disco, il primo senza brani di propria
composizione. Un duo quanto mai affiatato quindi che, diversamente
da quanto ci si potrebbe aspettare scorrendo i titoli del nuovo lavoro,
solo apparentemente semplice e commerciale, porta avanti ancor
oggi con coerenza e caparbietà un progetto musicale personale ed
interessante. Ascoltando «Synchronicities» si comprende
l’importanza del lavoro di arrangiamento, che ha cambiato forma,
ritmo e metrica a brani spesso molto famosi, arricchendoli con
assolo ispirati, mai fine a sé stessi. Una buona accoglienza era stata
riservata ai due precedenti lavori: «Acoustic Groove» del 2011, in cui
l’unico standard utilizzato, Humpty Dumpty, di Ornette Coleman, ha
suggerito al duo la scelta del nome, e «The contest Ep», dell’anno
successivo, con solo una manciata di brani per meno di mezz’ora di
musica. Ci sono voluti cinque anni perché i due giovani ragazzi di
Udine decidessero di tornare in studio di registrazione. Lo hanno
fatto con un progetto ambizioso, curato nei minimi dettagli, che parte
dalla musica di Sting per evolversi in un jazz acustico, sempre intriso
di cantabilità e groove. Il titolo scelto, «Synchronicities», richiama
direttamente uno dei capolavori dei Police – qui riproposto in due
versioni – ma al tempo stesso svela quel principio invisibile che nel
corso dell’incisione connette e lega chitarra acustica e contrabbasso:
il principio della sincronicità, che Sting aveva definito impercettibile
ed inesprimibile. Oltre alle versioni della title track e delle canzoni più
note (da Message in a bottle a Roxanne), ci piace sottolineare il
piglio con cui Matteo Mosolo conduce con il pizzicato e con l’archetto
King of pain, così come la dimestichezza esibita da Luca Dal Sacco
nell’interpretazione della medley Fields of gold–Shape of my heart.