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Dimitri Grechi Espinoza (sax contralto),
Piero Leveratto (contrabbasso), Filippo Monico (batteria)
Non è affatto terminata l’esperienza del Dinamitri Jazz Folklore, originale e funambolico
quintetto che aveva pubblicato nel 2003 il suo secondo disco, «Folklore in black», per Caligola.
Il suo leader, l’altosassofonista livornese Dimitri Grechi Espinoza, si è soltanto preso una
piccola pausa di riflessione, sentendo forse il bisogno di rimettersi in gioco con questo trio
molto libero, quasi paritetico, in cui forse non c’è un vero e proprio leader, completato com’è da
due illustri veterani dell’avanguardia, musicisti che hanno fatto la storia del jazz italiano, Piero
Leveratto, contrabbasso, e Filippo Monico, batteria. Ne è nato un album che non è, come
potrebbe sembrare, un episodio fine a se stesso, ma si collega direttamente a quella sorta di
“panafricanismo” che costituisce l’essenza del percorso artistico di Grechi Espinoza, convinto
assertore delle proprietà terapeutiche della musica. Quello che a noi interessa però è il risultato
musicale, davvero eccellente, anche perché serve tra l’altro a mettere meglio in luce le sue doti
di sassofonista energico e viscerale, degno erede della migliore tradizione neroamericana. Se
sembra sin troppo ovvio chiamare in causa l’Art Ensemble of Chicago, Roscoe Mitchell e
Anthony Braxton ma anche, perché no, l’Ornette Coleman lirico e nostalgico, quasi struggente,
dei trii scandinavi, va anche riconosciuto al sassofonista livornese il merito di voler procedere
tenacemente per la propria difficile strada, senza cedere alle lusinghe di chi vorrebbe magari
che il suo jazz si annacquasse un poco, per allinearsi maggiormente ai canoni della tradizione
europea. Non è musicista che ama il compromesso Grechi Espinoza, e l’urlo liberatorio di Hi,
I’m the mask, il claudicante incedere di Nice to, il lirico trasporto colemaniano di Meet you o di
You don’t fear (of), la cantabile eppur graffiante Pitch trance, il lungo ipnotico soliloquio di You
will, rendono giustizia al suo jazz sincero, sempre ispirato, spesso viscerale. Esemplari partner
in questa ricerca musicale si rivelano Piero Leveratto, la cui cavata profonda è protagonista
assoluta dell’inquietante sospeso ritmico di Riverse and transform, e Filippo Monico (magistrale
l’uso dei piatti nello stesso brano, ma anche dei tamburi nel sognante episodio finale di Dancing
with me). Ma se si dovesse scegliere un esempio di come le forti personalità dei tre musicisti
riescano magicamente ad integrarsi, questo è costituito forse dal breve ma significativo
bozzetto di Minor turbations, il cui incedere ciclico, quasi una corsa ad inseguimento fra i tre
strumentisti, lascia intravedere le enormi potenzialità del trio.