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Giancarlo Schiaffini (trombone), Claudio Cojaniz (pianoforte)
Il sottile filo magico che sin dal primo incontro ha unito i mondi musicali di Claudio Cojaniz e
Giancarlo Schiaffini è sembrato inspiegabilmente spezzarsi dopo la registrazione del pur
eccellente «Alea» (Splasch 1995). Ed invece, a distanza di sei anni, il dialogo fra i due geniali
musicisti–improvvisatori è fortunatamente ripreso, come non si fosse mai interrotto. Ma
nell’album appena citato il trombonista romano era soltanto ospite del trio di Cojaniz, mentre a
partire dal 2001, la formula che ha segnato il loro atteso rincontro è sempre stata quella, meno
semplice forse, ma assai più suggestiva ed intrigante, del duo. Duetto davvero ispirato il loro,
ed allo stesso tempo in continua evoluzione, vero e proprio “work in progress”, come
testimoniano mese dopo mese i loro concerti. Il disco «War Orphans» comprende due lunghe
improvvisazioni su altrettanti celebri brani di Ornette Coleman, a cui, come il titolo lascia
chiaramente intendere, è naturalmente dedicato, e due più brevi ma altrettanto pregnanti
performance solitarie (Or e Nette, gustoso gioco di parole!), che si prefiggono di riproporre, nel
modo il più possibile originale, lo spirito, unico ed affascinante, della musica di Coleman.
Impresa apparentemente titanica ma che, anche dopo ripetuti ascolti, appare pienamente
riuscita. Ma il viaggio musicale di Schiaffini e Cojaniz utilizza le due pur bellissime e struggenti
melodie colemaniane come pretesto per lunghe e coinvolgenti improvvisazioni; i temi sono
quindi soltanto i punti d’imbarco e d’approdo di una traversata ricca di insidie ma ancor più di
fascino. In mezzo ci sta tutto: il blues sanguigno, il Monk viscerale e profondo del pianista
friulano, che nell’ultimo decennio, soprattutto con i suoi trii, più volte mutati nella loro
composizione ma sempre sorprendentemente fedeli nella loro libertà al “Cojaniz pensiero”, ha
già dato esaurienti saggi del suo personale approccio jazzistico. Ma ci stanno anche tutta la
sapienza improvvisativa e l’ancora straordinario, mai lezioso virtuosismo strumentale di
Schiaffini, che si conferma davvero “grande vecchio” della musica europea degli ultimi
quarant’anni. Ed anche quando una melanconica ballad come Lonely Woman potrebbe indurre
a farsi tentare da un lirismo di maniera, i Nostri rivendicano, coerenti con i loro ideali, fedeli ai
propri principi, le sacrosante ragioni del sogno e della poesia.