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Nico Gori (clarino, clarinetto basso, sax soprano), Ruben Chaviano Fabian (violino)
Paolo Ghetti (contrabbasso), Alessandro Fabbri (batteria).
Ospiti: Sebastiano Bon (flauto), Paolo Cardoso (fisarmonica), Luca Gelli (chitarra)
Trent’anni passati a lavorare sul ritmo debbono pur contare qualcosa. Se nel 1975 Alessandro
Fabbri s’era avvicinato per la prima volta al mondo delle percussioni nel 2005, trent’anni dopo,
pubblica il suo primo album da leader (unico se si escludono quelli in cui aveva condiviso la
leadership con altri colleghi), «Rosso fiorentino», lavoro che sembra un po’ la sintesi di una
brillante e proficua carriera musicale. Non è un caso che le composizioni scelte coprano un
periodo di quasi dieci anni, anche se gli arrangiamenti sono stati completamente riscritti e
pazientemente cuciti addosso ad un quartetto atipico ed originale com’è quello che Fabbri si
trova qui a dirigere. I clarinetti (ed il sax soprano) del giovane ma già maturo Nico Gori, così
come il violino di Ruben Chaviano Fabian fanno virare la musica del batterista toscano ora
verso l’America Latina, grazie agli intensi aromi piazzolliani dell’iniziale Tan-go, quasi ballabile,
e del finale La Boca, più passionale, ora verso la Francia con Gonzales, vicino a quello stile
musette rilanciato da Richard Galliano. Non è un caso che in questi due ultimi brani si aggiunga
al quartetto la fisarmonica di Paolo Cardoso, presente anche in Angelica, suadente
composizione di Ellington già brillantemente riletta tre anni or sono in «Echoes of MJQ»
(Caligola 2039). E se alla fisarmonica si sostituiscono il flauto di Sebastiano Bon o la chitarra di
Luca Gelli, il jazz di Fabbri continua a percorrere sentieri poco ortodossi, convivendo in modo
personale con il blues (in uno Strange blues deliziosamente sospeso tra Africa e Brasile), il
rock d’avanguardia (l’amato Zappa di Little Umbrellas), il geniale humour jazzistico di Fats
Waller in Jitterbug Waltz. I nove titoli scorrono lievi e freschi già al primo ascolto, ed anche
un’analisi più attenta sembra confermare che ogni scelta del jazzista fiorentino, il cui fantasioso
“drumming” sembra aver trovato nel profondo ed incisivo contrabbasso di Paolo Ghetti un
partner davvero ideale, è stata ponderata con grande gusto ed equilibrio. Ma sono soprattutto i
due brani centrali, Domino ed Egeo, intrisi di aromi “etno–popolari”, entrambe composizioni
originali del leader, a conferire corpo e rotondità ad un “Rosso” nato in un’ottima annata, che il
tempo potrà solo migliorare.